4 Agosto 2019
XVIII Domenica Tempo Ordinario
Commento a cura di fra Marcello Buscemi ofm
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».
“Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni”. Gesù parte da un caso concreto: la spartizione di un’eredità, da sempre causa di litigi, malumori e persino odio. E va subito alla radice del male: la cupidigia di voler avere sempre di più. Di più: getta uno sguardo sulla ricchezza in generale. Essa non va né demonizzata né esaltata: può essere un mezzo “per arricchirsi dinanzi a Dio” venendo in aiuto ai bisogni degli indigenti e un “tesaurizzare” per il Regno di Dio. Comunque, il Vangelo di Luca contiene parole estremamente dure verso i ricchi e la ricchezza. Le quattro beatitudini dei poveri sono seguite da quattro “guai” molto minacciosi, che mettono sotto accusa non la ricchezza in se stessa, ma i “ricchi” (Lc 6,17-26) che hanno fatto della ricchezza un “mammona di iniquità” (Lc 16,13), un idolo a cui hanno sacrificato l’amore a Dio e ai fratelli. Ha fatto dimenticare loro che l’uomo non ha una dimora stabile in questa vita, ma che la sua esistenza è orientata al Regno di Dio. Per questo i “ricchi” sono paragonati ad un campo che riceve il seme tra le spine, cioè tra le sollecitudini del mondo, le seduzioni delle ricchezze e le cupidigie di ogni genere, che penetrando in essi, soffocano la parola, che rimane senza frutto” (Lc 8,14). Per questo il cristiano è invitato a “guardarsi da ogni cupidigia, perché la vita dell’uomo non dipende dai suoi beni” (Lc 12,15), a “non accumulare tesori sulla terra”, ma tesori nel cielo ed avere il suo cuore in quello scrigno prezioso che è il Regno di Dio (Lc 12,33-34), a porre la sua fiducia nella provvidenza infinita di Dio, che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo e dà il suo Regno a chiunque glielo chiede (Lc 12,22-31). Tutto ciò apre uno spiraglio per un uso positivo della ricchezza, per “arricchirsi dinanzi a Dio” (Lc 12,21). Si chiede al ricco una decisione coraggiosa di spogliarsi di alcuni suoi beni in favore dei poveri e assicurarsi la felicità eterna. Lo si ritrova già nella predicazione di Giovanni Battista, che predica alla folla la “sedaqa = elemosina” come segno di autentica conversione a Dio: “Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare faccia altrettanto” (Lc 3,11). Ma anche la predicazione di Gesù è sulla stessa linea: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i vicini ricchi..., ma invita poveri, storpi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da contraccambiarti: riceverai la tua ricompensa alla resurrezione dei giusti” (Lc 14,12-14). Zaccheo, una volta convertito, dichiara: “Ecco, Signore, la metà dei miei beni la do ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco il quadruplo” (Lc 19.8). La comunità primitiva viveva su questa decisione e per questo sviluppa la dottrina della condivisione dei beni e soprattutto dell’elemosina. Già per ogni israelita c’era (cfr Es 22,21-25; 23,10; Lv 19,9-10; 25,3-7.35-37; Dt 14,28-29; 15,1-18), e c’è ancora oggi, l’obbligo di soccorrere i poveri della propria comunità. La novità di Gesù è che non pone limiti nell'aiutare i poveri: la carità non ha barriere di razza o di casta. La parabola del buon Samaritano è sintomatica: il suo gesto di condivisione l’ha reso “prossimo” a chi aveva bisogno del suo aiuto (Lc 10,25-37). L’insegnamento di Gesù non consiste tanto nello spogliarsi dai propri beni, quanto nel far servire i propri averi a favore dei poveri, in maniera che tra i discepoli di Gesù non vi siano ricchi che sperperano e poveri che muoiono di fame. Attraverso la spogliazione dei beni e la condivisione, il discepolo diviene come Gesù, servitori dei fratelli (Lc 22,24-27). Ciò prepara il Regno di Dio: “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Col 3,1-2). Ma “evangelizzare i poveri oggi” non significa ripetere necessariamente gli stessi gesti o rispolverare le esperienze del passato: ciò che era valido ai primi tempi della Chiesa, può essere che non lo sia più nel nostro tempo. Il programma di Gesù non è né una tecnica di avanzamento sociale né una teoria socio-politica di promozione umana, ma impegno di vita a favore dei poveri e di ogni persona che in un modo e in un altro ha bisogno di aiuto. Ciò che importa è divenire sulla scia di Gesù segno evangelico credibile per tutti i poveri, oppressi ed emarginati del nostro tempo con gesti concreti di aiuto fraterno. Il comando di Gesù non è affidato a delle formule fisse, ma allo Spirito e agli eventi che di volta in volta fanno prendere nuove decisioni ai discepoli. “Evangelizzare i poveri” significa sempre porre in atto tutti quei gesti di liberazione dal male e dalla miseria, dall’infermità e dalla paura, in modo da far avanzare il Regno di Dio secondo l’amore e lo stile proprio di Gesù.